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European Business Development Specialists

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Cool Hunting: origini e Coolness

By Andrea Carfi | Founder & President Posted on 10/02/2015

european_institute_for_career_business_developmentChe cosa hanno in comune Miles Davis e il Cool Jazz, il gruppo etnico africano Yoruba, Elvis Presley e il rock ‘n’ roll, gli hippy e il festival di Woodstock, lo sportswear e gli atleti? Semplice: la parola chiave del cool hunting, ovvero la “coolness” (Pedroni, 2010), da “cool”, che sta per fresco, stiloso, di tendenza. Andiamo a vedere con ordine, in modo sintetico e schematico l’affascinante percorso socioculturale che ha portato la coolness alla cultura di massa, creando i presupposti per la nascita dell’attività professionale del cool hunting (il cacciatore di tendenze: qui potete trovare l’introduzione alla figura professionale e alcune delle principali subculture giovanili anni ’40, ’50 e ’60 e qui alcune delle principali subculture giovanili anni ’70, ’80 e ’90):

Le radici del termine coolness, fondamentale per il cool hunting, possono essere individuate addirittura nel termine religioso“Itutu”, che nel gruppo etnico africano degli Yoruba significa energia, bontà, avvenenza, contegno. Con la tratta degli schiavi il concetto diventerà simbolo di resistenza all’emarginazione e allo sfruttamento.

Il jazz, rappresentante della cultura afro-americana, peserà in maniera molto importante su quello che verrà visto come il legame inscindibile tra coolness e musica e sarà il fulcro del passaggio tra la “black coolness” e la “white coolness”. Alla fine degli anni ’40 del Novecento, infatti, nascerà il “Cool jazz” con Miles Davis; il termine “cool” in questo caso, indicherà uno stile disteso, calibrato, ennesima dimostrazione quindi dell’importante legame tra jazz e coolness.

La Coolness pone le basi per il Cool Hunting

Elvis Presley e la nascita del rock ‘n’ roll faranno entrare, definitivamente, la coolness nella cultura occidentale bianca e il significato di “coolness” si modificherà in quello che conosciamo oggi (“di tendenza”, “a la page”, “di moda” ecc.)

Negli anni ’60 del Novecento gli hippy si appropriano della coolness (“negli anni ’50 “hip” stava per “cool”) modificando e aggiornando il suo significato alla rivoluzione controculturale di quegli anni (la “summer of love”, la psichedelia, le proteste socioculturali e l’apice di Woodstock del 1969). Il movimento controculturale e le subculture giovanili porteranno la coolness alle masse (infatti anche lo sport, lo “sportswear” e gli sportivi diventeranno un importante simbolo di coolness)

Negli anni ’90 del Novecento nasce l’attività professionale del cool hunter, il “cacciatore di tendenze”: conseguenza dell’esplosione massmediatica del rapporto tra coolness e consumismo (tornerò sull’argomento e sulle tecniche e metodologie del cool hunter in un futuro post).

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Cool Hunting: le Subculture Giovanili anni ’70, ’80, ’90

By Andrea Carfi | Founder & President Posted on 08/02/2015

european_institute_for_career_business_developmentDopo aver introdotto il Cool Hunting e aver trattato alcune delle principali subculture giovanili degli anni ’40, ’50 e ’60, il post di oggi, invece, è dedicato ad alcune delle principali subculture giovanili degli anni ’70, ’80 e ’90 (allo stesso modo di Codeluppi, 2002):

 

 

 

Cool Hunting & Punk, Hip Hop, Paninari

  • Cool Hunting e Punk: In assoluto una delle subculture giovanili più espressive ed estreme. Il termine “punk” sta per putrido, marcio e senza valore, i Punk si vestivano in modo trasandato, eccentrico, con vestiti scuciti e strappati, con colori dissonanti, abiti di pelle nera sadomaso e avevano capelli colorati tenuti su con la lacca o con la classica striscia in mezzo alla testa come i mohican: esprimevano autoemarginazione e sarcasmo verso la società e la cultura dominante in modo anarchico e nichilista (sarcasmo, in particolare, nei confronti della crisi economica strombazzata dai media britannici dell’epoca e spesso anche nei confronti dell’inglese medio, vestendo, per esempio, cravatte sdrucite portate larghe e slacciate). La violenza e la rabbia che provavano verso la società del tempo la esprimevano sia attraverso la musica (distorta, veloce, sincopata, urlata, con tonalità acute e a volumi costantemente alti) e i testi delle canzoni, sia contro se stessi, procurandosi tagli e ferite (per esempio attraverso le famose spille da balia con cui si trafiggevano il corpo) e indossando catene, guinzagli e collari per manifestare l’impossibilità di cambiare le cose e la mancanza di libertà e di prospettive che osservavano nella società inglese del tempo. E’ risaputo che uno dei gruppi punk di riferimento, i Sex Pistols, si siano formati nel 1975 a Londra, nel negozio di abbigliamento “Sex” (da qui il nome del gruppo) di Malcolm McLaren e della stilista Vivienne Westwood: ennesima prova di quanto moda, subculture giovanili e musica siano legati. L’altro gruppo punk che vorrei citare sono i Clash, perché hanno rappresentato, secondo me, il superamento, a livello ideologico e musicale, del punk: non solo rabbia, anarchia e nichilismo (auto)distruttivo ma bensì una rivolta costruttiva, mentre a livello musicale vanno oltre (molto oltre) le coordinate punk, contaminandosi con tanti, ma tanti altri generi e influenze (“London Calling” e “Sandinista!” stanno lì a dimostrarlo in modo splendido).
  • Cool Hunting e Hip Hop: dopo il Punk arriva l’Hip Hop e le differenze tra le due subculture giovanili sono evidenti. Nato tra le comunità afroamericane, nei ghetti delle metropoli, l’Hip Hop porta nell’abbigliamento vestiti molto larghi, cappellini con visiera, scarpe da ginnastica, mentre la musica è, ovviamente il rap. A livello sociale ha rappresentato sicuramente una forma di protesta molto forte, pacifista, politicizzata e creativa (graffiti, break dance).
  • Cool Hunting e Paninari: Subcultura giovanile italiana molto anni ’80 (beh, molto certi anni ’80, sigh). Nata a Milano, a livello di abbigliamento si caratterizzano da borse Naj Oleari, scarpe Timberland, piumini Moncler: più in generale rifiutano vestiti eleganti e abbracciano uno stile maggiormente rozzo e mascolino. Sono durati poco, anche grazie a un rapporto con i media particolarmente forte che ha accelerato quindi il processo di annullamento del trend originario attraverso la mediatizzazione. La subcultura giovanile dei paninari si diffonderà, comunque, anche all’estero in alcune importanti metropoli europee.

Cool Hunting & Grunge, Britpop

  • Cool Hunting e Grunge: Violenta e rabbiosa reazione a ciò che certi anni ’80 avevano rappresentato a livello sociale, culturale, politico e musicale, ovvero gli yuppie, il consumismo, la musichetta di plastica, il lusso, le politiche di Reagan, della Thatcher e di Bush, l’ossessione per la categoria sociale del “winner”, il “vincente” a tutti i costi a discapito del “loser”, il “perdente”, il “beautiful loser” che svilupperà una propria etica ed estetica proprio a partire da Kurt Cobain dei Nirvana e continuando poi con Beck (celebre la sua Hit “Loser”) e Thom Yorke dei Radiohead, il grunge (che sta per sporco, maleodorante) è nato alla fine degli anni ’80 a Seattle ed esplose a livello sociale, culturale e mediatico con un urlo disperato, devastante: “Smells Like Teen Spirit” dei Nirvana e il loro album del ’91 che la contiene, “Nevermind”, porta, letteralmente, gli anni ’80 nei ’90, facendo diventare l’alternative rock e l’underground fenomeno di massa e spodestando “Dangerous” di Micheal Jackson dalla prima posizione nelle classifiche americane dei dischi più venduti (evento simbolico assai eloquente a proposito del cambiamento culturale in atto). Jeans strappati, camicie di flanella, capelli lunghi, maglioni sformati, converse all-star, gonne lunghe, scarponi pesanti, zatteroni: l’abbigliamento grunge in generale mirava alla comodità e alla semplicità (Kurt Cobain a volte usciva col pigiama addosso). Musicalmente è un incrocio tra punk, metal, psichedelia e pop rock, anzi è stato proprio il grunge a far crollare, definitivamente, le barriere tra due generi fino a quel momento opposti (musicalmente e ideologicamente) come il metal e il punk (processo iniziato comunque con i Metallica dei primi album degli ’80); è un’ondata da cui emergeranno band molto diverse tra loro: i già citati Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Alice In Chains, Afghan Whigs, Smashing Pumpkins, Screaming Trees, Hole, Mudhoney ecc. La subcultura giovanile originaria del grunge avrà davvero vita breve a causa di un processo di mediatizzazione che l’assorbirà del tutto fino ad annullarla nel giro di pochissimi anni.
  • Cool Hunting e Britpop: ovvero, ad oggi, l’ultimo grande movimento musicale in grado di generare subculture giovanili e tendenze intorno a se. Mentre il Grunge era stata una reazione a certi anni ’80, il Britpop (nato in UK nei primi anni ’90) è una reazione all’affermazione su scala planetaria dello stesso Grunge e del già citato Hip Hop: era infatti dalla fine degli anni ’80 che i laboratori musicali UK non riuscivano a imporsi fuori dai confini (l’ondata di gruppi provenienti da Madchester e lo Shoegaze in primis, che all’estero avevano raccolto solamente stenti e fallimenti), quando invece il Grunge americano, nei primi anni ’90 dilagava tra i giovani inglesi. Sono i Blur a far definitivamente esplodere, a livello “socioculturalmusicale”, il fenomeno con l’album “Parklife” (’94), caleidoscopio da cui si alzerà un’ ondata di proposte musicali, come per il Grunge, molto diverse tra loro: Oasis, Radiohead, Pulp, Kula Shaker, Suede, Verve, Elastica, Supergrass, Placebo ecc. Musicalmente, il movimento, riprenderà la tradizione inglese “modernista” mischiandola ad alternative rock, punk, new wave, psichedelia, ska, glam, shoegaze. Fred Perry, magliette Adidas, Doc Martens, la riscoperta di simboli come la Vespa o il Parka, completi tonic a tre bottoni e mocassini lucidissimi: una vera e propria controrivoluzione e ribellione, con classe, all’insegna di una fiera “inglesità”. Saranno sempre i Blur a dare origine al processo di erosione che porterà all’annullamento del fenomeno: musicalmente già estremamente eclettici, versatili, elaborati e con una forte attitudine alla sperimentazione, i Blur introdurranno, a partire dal loro album eponimo (“Blur” del ’97, anche se già nel precedente “The Great Escape” del ’95 c’erano state le prime avvisaglie) altre influenze musicali (noise, kraut-rock, lo-fi, space rock, hardcore, musica etnica, elettronica, aromi orientali) che di fatto, aprendo al movimento definitivamente la strada a possibilità infinite, paradossalmente metterà la parola “fine” ai presupposti che l’avevano originato (di lì a poco, infatti, anche i Radiohead con “Ok Computer” sempre del ’97 e i Pulp con “This Is Hardcore” del ’98 contribuiranno ulteriormente all’annullamento di questa subcultura giovanile).

 

Dedicherò altri post a cool hunting e subculture giovanili: cominciando dal fondamentale tema della coolness (concetto chiave per il cool hunting) e analizzandone origini e significato.

 

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Cool Hunting: le Subculture Giovanili anni ’40, ’50, ’60

By Andrea Carfi | Founder & President Posted on 20/12/2014

Andrea Carfi Consultancy_Formazione

Durante i workshop e i corsi che dedico alla figura del “Cool Hunter” (il Ricercatore di Tendenze, figura legata al mondo della moda, che negli ultimi vent’anni si è ritagliata un’importante e autonoma posizione all’interno della sociologia della cultura: affronterò questa attività professionale, approfondendola e spiegandone le origini in alcuni post futuri), dedico sempre uno spazio importante alle subculture giovanili.

Il concetto di subcultura, mutuato dalla sociologia, dall’antropologia e in particolare da uno dei campi di applicazione dell’osservazione partecipante (una delle più importanti tecniche qualitative della ricerca sociale, usata anche nel cool hunting: in generale viene impiegata per studiare un determinato gruppo sociale, una determinata cultura dall’interno e partecipando in modo attivo e totale ai loro usi e costumi), è importantissimo per descrivere quei gruppi, quei segmenti sociali che in qualche modo si distaccano dalla più ampia cultura ufficiale di cui fanno parte. Questo concetto, applicato ai movimenti giovanili, è fondamentale per capire i grandi cambiamenti che ci sono stati nella moda (intesa come complesso insieme di fenomeni sociali, non solo come abbigliamento) ed è importantissimo quindi per il cool hunter che deve, attraverso determinate tecniche e strumenti di cui parlerò in futuri post, analizzare on the road i luoghi dove le subculture giovanili (legate spesso e volentieri, come vedremo, a determinati movimenti musicali e a determinate opere cinematografiche) fermentano dando origine a nuovi stili di vita e permettendo al cool hunter, quindi, di individuare e anticipare le nuove tendenze.

Inutile dire che il ricercatore di tendenze dovrà conoscere bene quelle che sono state le subculture giovanili del passato (con le loro evoluzioni e le influenze che hanno esercitato) per capire quello che sta succedendo oggi nel campo.

Consapevole del fatto che, per trattare in modo completo ed esaustivo un tema complesso come quello delle subculture giovanili, dovrei scrivere un libro, l’obiettivo di questo post (e del prossimo) è dare uno sguardo generale, attraverso lo schema seguente, alle principali subculture giovanili dagli anni ’40 (!) a oggi (allo stesso modo di Codeluppi, 2002). Questo post è dedicato alle subculture giovanili degli anni ’40, ’50 e ’60 (quest’altro è dedicato, invece, alle subculture giovanili degli anni ’70, ’80, ’90):

Cool Hunting & Zooties, Bikers, Teddy Boys, Rockers

  •  Cool Hunting e Zooties: movimento di dandy mezzi neri e mezzi ispanici nella Harlem degli anni ’40; si vestivano con lo zoot (da qui il nome) che era un abito con giacca molto lunga e pantaloni molto larghi.
  •  Cool Hunting e Bikers: anche qui la loro origine risale agli anni ’40, movimento di motociclisti abbigliati con jeans, stivali e cosìdetto “chiodo” (giubbotto di pelle creato nel 1915). Rappresentati anche cinematograficamente nel film “Il Selvaggio” (1954) con Marlon Brando (in cui viene rappresentato il fatto, realmente accaduto, dell’invasione di un paese della California – Hollister – da parte dei Bikers), si contrapponevano all’americano medio dell’epoca che utilizzava l’automobile, vista dai Bikers come una sorta di prigione, mentre la motocicletta simboleggiava per loro la libertà, il selvaggio west (moto-cavallo), la sensualità.
  •  Cool Hunting e Teddy Boys: seguaci del rock ‘n’ roll americano di metà anni ’50.
  •  Cool Hunting e Rockers: Bikers e Teddy Boys fusi insieme in Inghilterra negli anni ’60: così si potrebbe definire questo movimento (piuttosto grezzo e rissoso) appartenente al ceto operaio e seguace del rock ‘n’ roll suonato da bianchi.

Cool Hunting & Mods, Beat, Hippy

  •  Cool Hunting e Mods: dandy della working class sofisticati, eleganti (influenzati da Francia e Italia e, a livello cinematografico, dalle commedie all’italiana per quanto riguarda l’abbigliamento; influenzati dall’Italia anche per quanto riguarda l’uso della Vespa e della Lambretta) snob, modernisti (il termine “Mods” viene da “Modernists”), innovatori, frenetici nello stile di vita (facevano uso massiccio di anfetamine per reggere determinati ritmi), amanti della cultura, amanti della musica dei neri afroamericani: rhythm and blues, soul, cool jazz (quest’ultimo, in particolare, avrà a che fare, come vedremo, con le origini del termine chiave per il cool hunting, ovvero la “coolness”). Saranno rappresentati nel film “Quadrophenia” alla fine degli anni  ’70, film tratto dall’omonimo album doppio degli Who.
  • Cool Hunting e Beat: movimento che negli anni ’50, in America, inaugura la contrapposizione tra le culture che vengono abbracciate dai Beat (culture e filosofie orientali, nuovi, rivoluzionari e sperimentali modi di concepire la poesia e la narrativa, LSD ecc.) e tutto ciò che era il mito americano: successo, carriera, soldi, agiatezza, ambizione ecc. La naturale evoluzione di tutto questo non poteva che essere la subcultura giovanile seguente: ovvero gli
  • Cool Hunting e Hippy: pacifisti, antimilitaristi, portabandiera della rivolta controculturale che porterà agli apici della “Summer of Love” (1967), del ’68 e di Woodstock (1969) con la leggendaria performance live di Jimi Hendrix che violenterà l’inno americano facendolo diventare un vulcano di distorsioni. Qui il movimento ha un legame inscindibile con l’esplosione rock dei ’60: Beatles, il già citato Hendrix, Who, Jefferson Airplane, Bob Dylan, Byrds, Pink Floyd, Beach Boys, Doors, Janis Joplin, solo per citarne alcuni dei più famosi. Nasce il rock psichedelico, influenzato dall’uso e abuso dell’acido lisergico e dalla volontà di aprire le porte della percezione per mostrare gli universi della mente: la psichedelia influenzerà anche l’abbigliamento, caratterizzato da un’esplosione di colori accesi, sgargianti, perfetti per esprimere quell’identità sociale e culturale così diversa dalla generazione precedente. I giovani infatti, a livello sociale, non sono più i “soggetti senza molta importanza che aspettano di diventare adulti” degli anni precedenti: in questo periodo diventano, letteralmente e definitivamente, il centro del mondo.

 

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Formazione Formatori: il Role Playing

By Andrea Carfi | Founder & President Posted on 06/12/2014

 

andrea carfiImpossibile, per quanto mi riguarda, pensare a un intervento formativo che non abbia la necessaria e funzionale alternanza teoria/pratica: per il sottoscritto la formazione senza una parte pratica non è formazione, è semplice informazione.

Il Role Playing è una delle tecniche più efficaci attraverso cui si permette ai discenti di interpretare dei ruoli lavorativi oggetto dell’intervento formativo che si sta erogando oppure dei ruoli non legati a una competenza tecnico-professionale in particolare, ma che è necessario interpretare per mettere in pratica competenze trasversali (soft skills: ad esempio comunicazione, gestione dello stress, problem solving, teamwork, capacità di lavorare in autonomia, mediazione, negoziazione, gestione del tempo, leadership, flessibilità ecc.) importanti per quel profilo professionale e precedentemente trasmesse ai discenti attraverso tecniche di lezione frontale teorica.
I Role Playing (e le esercitazioni pratiche in genere) sono strumenti che un formatore quindi deve usare in aula.

Il Role Playing, detto anche simulazione, è una tecnica di allenamento formativo utilizzata per lo sviluppo delle abilità che sostengono l’interpretazione efficace di un ruolo professionale: to play in inglese significa sia giocare sia rappresentare in senso teatrale, tanto che alcuni partecipanti hanno ribattezzato “scenette” questi importanti momenti didattici il cui obiettivo è quello di ricreare in “palestra” una situazione professionale di comunicazione o di gestione in modo “verosimile”, ossia quanto più possibile vicino alla realtà.

 

Il valore di questa tecnica di allenamento consiste nell’assicurare la necessaria preparazione atletica e psicologica fondata su due presupposti essenziali per lo sviluppo della professionalità:

 

1 – l’aumento della consapevolezza di sé, del proprio modo di essere e di reagire

 

2 – sfruttare l’opportunità data dai feedback provenienti dal formatore e dai colleghi in aula sulla performance in diretta del collega. Il feedback è la valutazione strutturata della performance che il formatore comunica al partecipante alla conclusione dell’interpretazione del ruolo professionale

 

Tre fattori sono importanti per il role playing quindi:

 

 

      –     il role playing deve essere funzionale agli obiettivi dell’intervento formativo

 

–          il feedback dato al partecipante deve essere pensato e comunicato come momento fondamentale della didattica e finalizzato al miglioramento/rafforzamento delle capacità e competenze dell’individuo

 

–          la motivazione del partecipante è importante per sistematizzare l’esperienza vissuta in una prospettiva di miglioramento delle sue performance professionali

 

L’impostazione del Role Playing in Formazione

Per impostare un buon role playing è necessario seguire alcuni punti:

 

 Briefing:

–          prima di cominciare è necessario far capire cosa si sta facendo e perché ai partecipanti e qual è il valore didattico: il formatore deve avere il consenso necessario dell’aula affinchè il role playing si svolga con motivazione e impegno e quindi potersi allenare al ruolo professionale

 

–          inserire i partecipanti in situazioni lavorative da riprodurre, l’indicazione che va data è di calarsi nella parte esattamente come se si fosse nel luogo di lavoro

Svolgimento:

–          la durata di un role playing varia a seconda della situazione da interpretare: se per un colloquio di selezione possono bastare 10/15 minuti, per una simulazione di docenza il tempo necessario indubbiamente dovrà aumentare.

 

–          Il formatore darà il via; nel momento in cui il role playing dovesse continuare oltre il tempo necessario, il formatore darà lo stop.

Debriefing:

–          Concluso il role playing ci sarà l’altrettanto importante momento del feedback; è necessario il riscontro immediatamente dopo la performance. Il feedback si concentrerà soprattutto su aspetti comunicativi, di gestione, metodologici

 

–          Il feedback si dividerà in tre fondamentali fasi:

1 – autovalutazione del partecipante rispetto al role playing appena svolto (il docente formatore stimolerà il discente protagonista della “scenetta” appena interpretata attraverso domande come: “come è andata?”, “come ti sei sentito in questo ruolo?”, “c’è qualcosa che hai osservato e che vuoi condividere con noi?”)

2 – valutazione e osservazioni dei colleghi presenti in aula (che il docente formatore dovrà stimolare attraverso domande come: “che ne pensate?”, “qualcuno vuole dire qualcosa rispetto all’esercitazione appena svolta?”, “c’è qualcosa che avete osservato e che volete condividere attraverso una riflessione?”)

3 – il formatore darà quindi il suo feedback sottolineando prima di tutto i punti forti della performance del discente con frasi come: “molto bravo in questo”, “mantieni quest’altro”, “mi è piaciuto molto quest’altro ancora”, dopodichè il docente farà riflettere il discente sui punti da migliorare (senza mai quindi usare una terminologia che faccia riferimento a “punti deboli” o a “ciò che è andato male” ma anzi usando frasi del tipo: “lavora su questo punto”, “puoi migliorare su quest’altro”, “fai attenzione a quello”). Il formatore dovrà ovviamente spiegare molto bene al discente (e a tutto il resto dell’aula) perchè sta sottolineando i vari punti (sia quelli forti, sia quelli da migliorare) e argomentare con ulteriori spiegazioni e ripetizioni.

 

Video “Formazione Formatori”

Altri post del blog di “Andrea Carfi Consultancy – Training and Media” sulla Formazione Formatori:

– Formazione Formatori per Assistenti Sociali (Part 1)

– Formazione Formatori per Assistenti Sociali (Part 2)

– Il “Domandologo”

– Il “Logorroico” 

– L’ “Esperto Saccente

– Sperimentazione in Formazione

 

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Formazione Formatori per Assistenti Sociali (Part 2)

By Andrea Carfi | Founder & President Posted on 15/11/2014

 

andrea carfi

C’è sempre, durante l’intervento di Formazione Formatori per Assistenti Sociali, un momento in cui, io e il mio collega Dott. Furio Panizzi, interpretiamo il ruolo dei discenti “problematici” (domandologo / logorroico / saccente) per mettere in difficoltà (beh, mica lo facciamo per sadismo eh :D) i partecipanti che devono affrontare, magari per la prima volta, un pubblico: i discenti che partecipano al nostro corso di Formazione Formatori per Assistenti Sociali, dopo aver progettato il loro intervento con la nostra assistenza, devono anche erogarlo. Io li “minaccio” subito, in apertura del corso:“guardate che oramai non potete più tirarvi indietro, il corso è estremamente pratico, perché il nostro obiettivo è quello di addestrarvi a progettare ed erogare interventi formativi di ottimo livello in maniera autonoma; quindi in queste giornate di corso preparatevi a mettervi in gioco e a sfruttare al massimo la possibilità che avrete di fare pratica in un contesto protetto” 

Formazione Formatori per Assistenti Sociali: Project Design

Project Design – ovvero la prima, fondamentale esercitazione del corso Formazione Formatori per Assistenti Sociali. Dopo aver ideato la tematica del progetto che  erogheranno, i discenti la devono mettere nero su bianco: dopo quindi avergli mostrato un progetto come esempio sulla lavagna, in modo tale da fargli capire concretamente cosa significa “Macroprogettazione” (ovvero il progetto in linee generali, in macroaree) e “Microprogettazione” (ovvero il progetto nei suoi minimi dettagli, entrando nel particolare, in microaree quindi), i discenti devono impostare il progetto da loro precedentemente ideato attraverso la metodologia e secondo le indicazioni tecniche che abbiamo fornito. A turno poi, io e il mio collega, analizziamo ogni progetto con estrema cura, studiandone la potenziale vendibilità sul mercato, discutendone con loro, inserendo cambiamenti dove è necessario e rendendoci quindi conto se le persone hanno concretamente capito o meno la metodologia del Project Design. La cosa importante che deve capire il discente è che attraverso la micro-progettazione avrà si un documento attraverso cui poter presentare il progetto ai committenti, ma soprattutto si ritroverà uno schema preciso (con tanto di tempistiche e tipologie di esercitazioni da proporre durante ogni modulo del progetto) da poter seguire nel momento in cui dovrà erogare il proprio corso: è necessario quindi che i discenti pianifichino tutto ciò che vogliono affrontare durante l’erogazione del loro intervento formativo, rendere concreta la loro visione, perché servirà soprattutto a loro stessi per orientarsi sia in fase di preparazione che di erogazione del corso.

Formazione Formatori per Assistenti Sociali: Simulazioni di docenza

Simulazioni di Docenza – emotivamente, spesso, di grande impatto per i partecipanti (sia per coloro che non hanno mai avuto a che fare con la comunicazione in pubblico, sia per gli altri, invece, con esperienza alle spalle), è uno dei momenti in assoluto più importanti dell’intervento assieme al project design; perché solamente attraverso la pratica (pur se in un contesto ovviamente protetto, come scrivevo prima) sia i discenti che i docenti possono e devono rendersi conto, in maniera definitiva, se le competenze oggetto dell’intervento formativo sono state trasmesse correttamente e se gli obiettivi sono stati raggiunti. Il nostro compito è quello di motivare costantemente il discente e di assisterlo continuamente, rinforzandolo quando dobbiamo sottolineare quanto sia stato bravo e facendogli capire, quando è necessario, quali sono i punti su cui deve lavorare per poter migliorare. I momenti in cui, come scrivevo in apertura, io e il mio collega interpretiamo (durante la simulazione di docenza del discente), a turno, il discente domandologo, logorroico o saccente sono quelli forse più temuti durante le esercitazioni: è importante però capire come i discenti affrontino la gestione delle situazioni problematiche in aula sfruttando le indicazioni che sono state date precedentemente durante la parte teorica.

Gestualità, tono e ritmo della voce, movimento del corpo, public speaking, gestione dell’aula, gestione del tempo, gestione dello stress, problem solving, capacità di esposizione, capacità di coinvolgere il pubblico, impostazione della lezione, impostazione del progetto, mimica, uso degli strumenti didattici disponibili in aula…
 Tutto questo e altro devono essere studiati sempre con estrema attenzione per poter erogare ogni tipologia di intervento formativo: ecco perché le esercitazioni pratiche sono un momento didattico fondamentale per l’acquisizione delle competenze che i discenti potranno e dovranno poi spendere sul mercato del lavoro.

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Formazione Formatori per Assistenti Sociali (Part 1)

By Andrea Carfi | Founder & President Posted on 10/11/2014

 

andrea carfi

Mi ricordo molto bene quando il mio collega Formatore (e Assistente sociale) Dott.Furio Panizzi  mi disse, di punto in bianco: “Andrea come lo vedresti un progetto legato alla Formazione Formatori per Assistenti sociali?”. Ovviamente in quel momento non potevo immaginare quanto successo, in tutti i sensi, avrebbe avuto, ma qualcosa mi disse immediatamente che quell’idea non era buona, ne ottima; era eccellente! Grazie all’entusiasmo dei discenti, infatti, nacque l’ A.I.A.S.F. (Associazione Italiana Assistenti Sociali Formatori) e grazie alla validità del progetto ottenemmo l’accreditamento del C.N.O.A.S. (Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali), del C.R.O.A.S. (Consiglio Regionale Ordine Assistenti Sociali) e il patrocinio del S.U.N.A.S. (Sindacato Unitario Nazionale Assistenti Sociali). Ma andiamo con ordine:

All’epoca (2010) avevo progettato ed erogato moltissimi interventi legati alla formazione per i futuri formatori, ma non avevo mai pensato di indirizzarli verso specifiche categorie professionali: in questo senso l’idea della Formazione Formatori per Assistenti Sociali e l’esperienza del Dott. Furio Panizzi furono fondamentali per dar vita a un intervento che univa teoria, pratica, partecipazione attiva dei discenti e spendibilità sul mercato del lavoro in maniera estremamente funzionale: la formula dei miei corsi di Formazione Formatori (e di tutti i miei corsi), infatti, si basa sul concetto per cui tutte le parti teoriche sono immediatamente affiancate da esercitazioni pratiche attraverso le quali i discenti hanno la possibilità di mettere in pratica tutto ciò che è stato argomento della lezione e quindi sperimentarsi in un contesto protetto come quello dell’aula di formazione. Inoltre dedicavamo diverse ore alla spiegazione precisa di come poter immediatamente spendere sul mercato del lavoro le nuove competenze acquisite durante il corso una volta usciti dall’aula, offrendo tra l’altro anche assistenza post-intervento.

Formazione Formatori per Assistenti Sociali: Progettazione

Argomenti su cui ci concentravamo in modo particolare erano la Progettazione e l’Erogazione di un intervento formativo:

Progettazione:

–          Durante l’apertura del corso di formazione formatori per assistenti sociali, tra le altre cose, presentavamo in modo chiaro quali erano gli obiettivi principali che ci dovevamo porre: il creare un proprio progetto (almeno uno, nulla vietava loro di crearne di più, anzi, noi cercavamo di spingere proprio in quella direzione) da poter poi realmente proporre ed erogare presso Enti, una volta concluso l’intervento formativo in formazione formatori per assistenti sociali, era tra questi.

–          Spiegavamo in modo estremamente dettagliato, semplice e chiaro quali erano le tecniche per mettere nero su bianco un’idea che magari frullava in testa da tanto tempo nei discenti.

–          Analizzavamo e valutavamo insieme se, per il progetto che volevano erogare, poteva esserci domanda sul mercato o meno: in caso di perplessità stimolavamo il discente a pensare a qualcosa di differente, magari da noi stessi suggerito.

–          Davamo la possibilità di creare immediatamente il loro progetto lì, in aula, con la nostra assistenza ovviamente; in quel modo ci rendevamo conto se i discenti avevano perfettamente acquisito la competenza del saper progettare un intervento formativo o meno, permettendoci quindi, eventualmente, di capire quando era necessaria un’ulteriore spiegazione o un ulteriore approfondimento dell’argomento.

Formazione Formatori per Assistenti Sociali: Erogazione

Erogazione:

–          Un altro, fondamentale obiettivo principale dell’intervento era il saper erogare un corso di formazione e anche qui, ovviamente, il tandem teoria-pratica faceva da padrone

–          Attraverso la teoria affrontavamo argomenti come comunicazione efficace, public speaking, gestione del gruppo, conduzione delle attività pratiche, gestione dei casi critici, leadership, uso degli strumenti, tipologie di lezione, errori da evitare, negoziazione, coinvolgimento del gruppo, materiale didattico. Immediatamente dopo la teoria, come sempre, grande spazio alla pratica:

–          Il primo livello consisteva nella preparazione, da parte dei discenti, di alcune dispense sulla formazione che consegnavamo durante il corso e nella successiva erogazione di una lezione che si basasse sul materiale appena letto e studiato (tra l’altro esercitazione mutuata dalla “Presentazione”,famosa prova di selezione di gruppo per il profilo professionale del formatore, appunto).

–          Il secondo livello era l’erogazione, sempre da parte del discente ovviamente, di una lezione estratta da una parte del proprio progetto creato precedentemente in aula.

 

Ci sarebbero tantissime cose da dire rispetto alle dinamiche che si creavano in aula e alla metodologia usata durante le esercitazioni pratiche; metodologia che io e il mio collega pianificavamo con cura per rendere la parte pratica del corso il più possibile utile per il discente: l’obiettivo che abbiamo sempre seguito era infatti quello di rendere ogni discente pronto (con il primo progetto immediatamente spendibile sul mercato) ad affrontare una platea e un gruppo formativo (con tutte le criticità che esso comporta) subito dopo la fine del corso di formazione formatori per assistenti sociali.

Per evitare di scrivere un capitolo di un libro sulla formazione formatori per assistenti sociali, anziché un post, questi argomenti saranno oggetto del prossimo.

Video “Formazione Formatori”

 

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